giovedì 20 settembre 2018

Credo


Ho visto i pilastri della Creazione, incubatori di stelle bambine, grazie a un occhio puntato dagli uomini sull'universo.

Ho conosciuto la materia oscura, i neutrini,   le innumerevoli particelle che compongono la nostra realtà  grazie allo studio e all' immaginazione degli scienziati.

Ho compreso la storia della Terra e dell'uomo grazie a chi ha scavato nelle sue viscere e ha portato alla luce tracce di conoscenza.

Ho capito la potenza del pensiero, la sua indipendenza, la capacità di diffondersi senza barriere, difese, contenuti.

Ho ammirato la generosità di chi offre tutto se stesso affinchè altri possano stare meglio.

Ho assistito, impotente, al declino lento e progressivo di una vita, e ho sperimentato il peso del fardello degli anni e della malattia.


I pilastri della creazione - nebulosa dell'Aquila
courtesy of Hubble, NASA


E allora Credo.

Credo nella realtà dell'universo, nel suo essere infinito e indefinito, nel nostro essere parte stessa del tessuto spazio-tempo, nell'infinitesima piccolezza del nostro mondo.

Credo nella vita, splendido fiore inesplicabile tra tutti i fenomeni che questa realtà contempla, sola opposizione al degrado dell'entropia.

Credo che la vita umana, e la vita di tutti gli esseri coscienti che sono nell'universo,  sia ciò che dà senso all'esistenza dell'universo stesso.

Credo nella conoscenza, nella ricerca, nello studio, che danno senso al lavoro e alle opere degli uomini.

Credo nell'interazione, cuore dell'esistenza , e nel suo riflesso sociale ,  la relazione.

Credo nell'amore, collante universale, interazione unica delle forze del mondo, energia pura che muove il sole e l'altre stelle.

Credo in Lei che è  parte di me, e credo a Lei che crede in me perché sono parte di lei.


E Credo in Dio. un Dio che comprende tutto questo e lo racchiude nella sua essenza.

Un Dio che è la sostanza e il significato  di quanto esiste nell'universo, ma che allo stesso tempo lo regola, lo governa.
Un Dio che si manifesta, ma secondo le capacità di comprensione di ciascuno. 

Un Dio che prova amore, che è amore, perchè l'amore è relazione sublime.

                                                              
                                                           

venerdì 24 agosto 2018

Molti incontri

L'atteggiamento dell'incontro è forse quello che meglio caratterizza il periodo della vacanza, almeno per quanto riguarda le esperienze che, insieme alla mia famiglia, ho vissuto in questa estate.
Fuori dai contesti quotidiani, la mente è più aperta, più affamata di stimoli positivi, più incline a allineare il pensiero all'ampio orizzonte del mare, o ai frastagliati margini di un bosco, che alla concentrazione e concitazione del lavoro e delle attività.
In qualunque luogo ci si trovi, penso che le occasioni di incontro, in cui l'anima si affaccia, ingenua, alle meraviglie del mondo,  non manchino.

Incontro con la natura:
        più che in altri periodi dell'anno, ci si trova immersi in ambienti naturali, si percepisce il sole, il vento sulla pelle, si ragiona e si dipende dai capricci del tempo per organizzare le proprie giornate, si hanno contatti con piante e animali ( pesci che ti nuotano intorno mentre sei a mollo nel mare o donnole che ti attraversano la strada di montagna che stai percorrendo, per dirne un paio; potrebbero parere banali, ma con l'atteggiamento di apertura e di scoperta, sono perle di esperienza).

Incontro con la fantasia, che  concretizza le visioni del quotidiano in colore e forma, di ogni tipo.

Incontro con l'arte, con l'ambizione, con la grandezza umana cementata tra le pietre testimoni della storia.

Incontro con i libri, non per l'oggetto in sè  o per le storie che narrano, ma per l'incontro con chi li ha scritti, annullando con il gesto di sfogliare le pagine, ogni lontananza nel tempo, nello spazio, nella cultura.

Incontro con la diversità umana, con i milioni di persone che lavorano, si muovono, amano, dialogano,  riconoscono nell'altro una parte di sè. Incontrare altri da noi, confrontare comportamenti, abitudini, apprezzarne il lavoro, porta a diminuire la sovrastima che si ha di sè, del proprio nucleo originario, e aumenta l'apprezzamento per l'intero genere umano e per le culture che lo formano.

Incontro con la dimensione familiare, vissuta nei tempi della vacanza, mai abbastanza lenti,  focalizzati nel vivere insieme esperienze uniche, perchè unico il momento in cui le si vive.

Incontro con se stessi, coi bilanci non fatti, le domande mai poste o rimandate, col riposo della mente, con la voglia di ripartire con progetti e idee.



lunedì 18 giugno 2018

La ricerca della bellezza

Una cosa che sto imparando dalla mia famiglia ( si impara sempre da  chi è in relazione con noi, ma non sempre si è consapevoli di questo) in questi giorni di chiusura delle attività con saggi e esibizioni ma più in generale in questi mesi, anni, è di provare a capire la natura della bellezza.

Si percepisce che nelle attività che hanno scelto, nel preferire la musica, la danza, la letteratura, in tutto quello fanno, che tutti noi facciamo, mossi da pulsioni non sempre e non del tutto esprimibili , vi è la ricerca della bellezza.

Ma di cosa si tratta, veramente?
Non è puramente senso estetico,  a volte frivolo, a volte romantico, quasi sempre avulso dalla realtà.
Non è pura emozione, irresponsabile e libera.
E' compenetrazione del proprio essere nella dimensione dell'esistenza, capacità di cogliere in questo il valore assoluto della esperienza di vita.

 Danza

Musica

Grafica
 Letteratura














L'uomo ricerca in esse una digressione dalla banalità, un pattern modificato nella trama rassicurante ma noiosa, una informazione che rompa la simmetria multilaterale della quotidianità.


è più bello un fiore reale, con  le sue imperfezioni,
o la sua rappresentazione grafica, perfetta ma astratta?

Forse lì abita la bellezza?
Nel trovare sequenze familiari di segni, suoni, movimenti, che avvolgono la mente come un nido, una culla dove trovare rifugio. Ma se ci si limitasse a questo, tuttavia, l'intera arte sarebbe un continuo plagiare se stessa. Sempre uguale, protettrice, bozzolo entro il quale autoriferirsi.
In questo momento di intimità, di annullamento delle percezioni si insinua invece  uno spillo, una digressione, un  elemento nuovo che risveglia la mente, la costringe a essere presente a se stessa, a riformulare l'interpretazione di quello che vede, sente, comprende.

dal Web, free of use

Anche nella pratica dello yoga non è l'estetica del gesto a prevalere, non la sua perfezione, ma il suo equilibrio; l'armonia del corpo rispetto alla mente e all'anima.
Non è forse questa la felicità: essere in uno stato di armonia con le cose e le persone  che ci circondando e con cui interagiamo?
La ricerca della bellezza dunque altro non è che la ricerca della felicità.

venerdì 15 giugno 2018

Ago e filo

Anna Maria
25 luglio 1934

21 maggio 2018





La mia anima è stanca, sfilacciata
Neppure con ago e filo la si può rammendare
Costretta da questa malattia a isolarsi
Nel più remoto angolo del mio corpo.
Questo universo che si restringe ogni giorno
Che ogni giorno addormenta brandelli di coscienza .
Vorrebbe fuggire, la mia anima. Liberarsi.
Tessere trame con l’infinito.
Cucirsi una veste bianca per poter stare al cospetto di Dio.
Ma ancora sono qui, legata alla Terra
Perché è la terra che ci ha nutrito
La terra di cui sono intrisi i giorni più belli della mia famiglia, della mia gente.
Sono legata a quelli che mi hanno voluto bene,
a cui ho voluto bene
Se l’oggi lo viviamo con l’affanno delle cose da fare,
il domani forse sarà il rimpianto delle cose perdute,
sarà soprattutto la nostalgia e la dolcezza de gli incontri che abbiamo avuto.
Sono felice, sì, sono felice.
Lo dico con gli occhi, perché la parola l’ho dimenticata
Come tante altre cose di questo mondo.
La mia anima è pronta, ora.
Pronta a confezionare un nuovo vestito,
non di carne e limiti, ma di pensiero e libertà
pronta a incontrare Luigi, Dino, Stella, Linda e Giuseppe, Giuseppina e Enrico,
e tutti gli altri che mi hanno preceduto.
E infine prima di presentarsi al cospetto dell’Altissimo,
incontrare lui, il mio Antonio,
perché l’amore, quello, non muore mai.


martedì 5 giugno 2018

Pedalando tra le radici






Respiriamo la brezza calda di una giornata che prepara l’estate. Rinnoviamo lo sguardo sulla campagna immobile, testimone del lavoro millenario della terra. Ci ripariamo all’ombra della storia, di mura che hanno sentito il palmo della mano, lo strascinare stanco di piedi di migliaia di nostri antenati.  Ascoltiamo con sorpreso interesse una  storia che è la nostra, degli originari cernuschesi che ce l’hanno nel sangue, ma anche di chi abita qui pur avendo radici lontane. Perché quando si abita veramente una terra, la si fa propria.

Nei giorni che aprivano giugno abbiamo pedalato tra le strade e gli sterrati che uniscono in rete le nostre cascine, grazie alla Libreria del Naviglio che ha organizzato,   Mauro Raimondi e Elisabetta Ferrario che hanno spiegato, narrato,  commentato sin quasi a perdere la voce.

Non è stato un tour nostalgico, anche se a volte un senso di perdita affiorava specie nell’assistere alle offese che il tempo e l’incuria hanno recato a molti edifici.  È stato un viaggio nel passato per capire meglio il presente e progettare con più consapevolezza il futuro.  

A testimonianza di questo, il giro si è concluso presso una delle aziende agricole attive nella nostra città, ove giovani imprenditori ripercorrono con intelligenza e determinazione i solchi scavati dai contadini che li hanno preceduti.

A guardar bene, le radici della nostra storia affondano in una buona terra.


martedì 24 aprile 2018

Quando la parola diventa pubblica, costruisce una comunità


E' noto che l'uso della parola è prerogativa quasi solo della razza umana. Poche limitate eccezioni dimostrano che anche alcune specie a noi affini, scimpanze, bonobo, gorilla, sono in grado di utilizzare il nostro vocabolario per comunicare, col linguaggio dei segni , essendo impediti dalla loro anatomia  a pronunciare suoni articolati come quelli di un linguaggio.
Parlare in pubblico implica la presenza di ascoltatori che entrano nella dimensione dell'ascolto
Sin dalla prima comunità, quella familiare, le conversazioni, lo scambio di informazioni attraverso la parola è il primario strumento di relazione non istintiva.  Parlare, anche a un bambino che non è in grado ancora di sostenere un dialogo, stringe legami, stabilisce relazioni.   Nei bambini più timidi, l'orizzonte familiare è anche il confine oltre il quale il dialogo non esiste, non si concepisce.
Poi il concetto di comunità si estende: scuola, amici, parrocchia, squadra, gruppo, associazione, colleghi, l'orizzonte delle interazioni si fa ampio, e anche la complessità della comunicazione si fa più alta.
Si fa esperienza anche di comunicazione uno a molti: l'insegnante spiega a tutta la classe, il sacerdote commenta dall'altare, l'esperto tiene una conferenza, il coach ammonisce la squadra, il politico illustra il suo programma.
Spesso non è evidente, ma nel seguire chi sta parlando, si accetta in una qualche misura di condividere quel flusso informativo con altri, e in definitiva di appartenere a una stessa comunità di interesse.
Un episodio vissuto in prima persona può essere un esempio efficace.
A Barcellona, poche ore dopo l'attentato


Nei giorni dell'attentato a Barcellona, la scorsa estate, la mia famiglia, con un gruppo di amici, era lì, e ci trovammo, pur senza essere coinvolti direttamente, nel caos dei momenti immediatamente successivi. La sera, in camera, seguimmo i notiziari, e nonostante tre su quattro di noi non conoscessero lo spagnolo, non solo eravamo avidi di immagini e informazioni, ma ascoltavamo il tono delle testimonianze, empatizzavamo con i cittadini catalani e in qualche modo ci sentivamo parte di quella comunità ferita.

Quando la parola diventa pubblica, realizza una comunità.



Altrove ho raccontato di come la parola riempia gli spazi, si insinui nella vita portando il suo contenuto di significato a sostenere la nostra ricerca.
La parola crea anche empatia, così come ha fatto ancora la talentuosa  Arianna Scommegna a teatro con "Potevo essere io",(1) agrodolce monologo sulla vita di periferia, che può plasmare il destino di una persona in molti modi diversi. Il riferimento a esperienze comuni, anche quelle tragiche, pur con qualche generazione di differenza, il repentino cambio di registri,  la  capacità di Arianna di "tenere il palco", anche senza microfono che la ha abbandonata nei primi minuti di recitazione, tutto questo ha reso permeabile la nostra membrana affettiva.
Tutti noi ci facciamo portatori dell'esperienza della protagonista, e tutti noi pensiamo che "potevamo essere noi". Siamo stati spettatori di una esperienza culturale, ma che ha scavato nelle nostre vite (che è poi quello che la cultura deve fare, in fondo).
Anche durante la lettura recitata del testo di don Tonino Bello, fatto da alcuni amici,(2) si percepiva quel senso di appartenenza a una comunità, che nello specifico si stringe nel ricordo di un  uomo non comune, un sacerdote che fa scordare le gerarchie e le sovrastrutture per entrare nel cuore del senso di Dio.
Dunque già il riunirsi in un luogo per ascoltare insieme, essere pubblico per qualcuno, e percepire la parola che tutti raggiunge come elemento agglutinante, significa accettare di essere singolo in un insieme, parte di un gruppo, elemento fondante di un organismo dove il tutto è maggiore della somma delle singole parti.



(1) 13 aprile 2018, Teatro Agorà, Cernusco s/N
(2) 20 aprile 2018, Parrocchia del Divin Pianto, Cernusco s/N

mercoledì 21 marzo 2018

Racconto veritiero della mia prima visita alla Cappella della Villa dell’eccellentissimo Conte Giacinto Alari, sita in Cernuschio.



Io, Bertolo Belotti fu Bonaldo, da Averara, di professione falegname, venni incaricato per un certo tempo di provvedere alla realizzazione di ammobiliamento per le stanze della Villa del Conte Alari.
Avendo infatti questi ricevuto il grado di nobiltà da poco tempo, intendeva provvedere a nuovo mobilio, specie per quelle stanze che avrebbe destinato a futuri ospiti suoi pari.
In tal periodo, si era in Quaresima,  una sera venni invitato da alcuni lavoranti a partecipare alle celebrazioni  vespertine nella Cappella della Villa. Vi avrebbero partecipato anche i conti, mi dissero.
Ora, il signor Conte mi era familiare, avendo con egli contrattato i lavori e il compenso, sei soldi ogni mese. Ma mai avevo veduto la signora Contessa Teresa, che assai mi incuriosiva, avendo udito essere lei di molto bello aspetto e maniere.
Con questo proposito quella sera mi accostai alla Cappella. È questa una costruzione molto piccola, posta sul lato orientale  del maestoso cancello d’ingresso alla villa, la qual cosa è curiosa, sapendo che  i nobili amano realizzare nei loro edifici cappelle per i loro uffici sacri, ma sempre queste sono poste nel cuore della costruzione, invece questa è posta all’esterno, e senza entrare nella villa, fittavoli  e  mezzaiuoli possono assistere alle funzioni.
Entrai dunque, e ansioso di vedere la signora Contessa scrutavo le figure accanto alla balaustra, in attesa del sacerdote officiante, ma era tutta plebe, non nobili.
Uno al mio fianco, comprendendo il mio intento, mi disse che i signori assistevano la funzione da una stanza posta dietro la grata che si vedeva nella parete del presbiterio, sopra la porta che recava in sagrestia. Deluso, presi a guardarmi intorno, ammirando la cappella.
È questa una piccola costruzione  inclusa in otto lati di  cui uno si apre al presbiterio, ove risiede l’officiante,  tutta dipinta in tenui colori tortora e rosa incarnato, i fregi dorati ornano massimamente il presbiterio, e i capitelli che sostengono il soffitto. Lo quale è quanto di più magnifico abbia veduto.
Iscritto in una figura geometrica chiamata ellisse, un grande affresco apre la volta della cappella alla visione del Paradiso. La luce della Trinità  si diparte dal centro e illumina  innumerevoli figure, sicuramente santi, di cui tuttavia, a cagione della mia scarsa attitudine allo studio, non sapevo dare nome.

Mi risolsi dunque di chiedere al gentiluomo che mi stava accanto, a modo e ben vestito, e che dunque immaginavo in grado di illuminare la mia ignoranza. Difatti egli dapprima mi spiegò che la forma del soffitto era forse conseguenza delle scoperte dell’illustre scienziato Keplero, che riteneva tale figura geometrica come costante nei movimenti celesti. Inoltre mi  illustrò diligentemente tutti i santi ivi rappresentati, di cui però rammento solo alcuni. Abbiamo dunque, come figura principe tra tutti quelli che rendono onore alla trinità San Giacinto, protettore del signor Conte,  poco più in là, oltrepassati San Francesco  e un altro santo francescano, vi è Santa Teresa, patrona dell signore Contessa. Ancora, sul fianco opposto, San Carlo e Sant’Ambrogio.
Ancora il gentiluomo indirizzò il mio sguardo all’altare ove una grande tela magnificava ancora la divozione dei signori Conti, per tramite dei propri patroni, san Giacinto e santa Teresa, amorevolmente accolti dalla Nostra Signora Madre di Dio, con i braccio il Santo Bambino e alle spalle San Giuseppe.
Intanto i vespri erano iniziati. Stetti pensieroso sino alla conclusione. Uscendo mirai il grande edificio che oltre il cancello riempiva la visuale.
Pensai: gli uomini sono caduchi. Un attimo, e di noi non resta che un mucchietto di ossa. E una domanda nacque nelle mia mente. Cosa resterà di tutto questo? Resteranno solo le opere, gli edifici, l’arte e gli affreschi, o restera qualcosa anche di noi, uomini mortali?

Anno Domini 1735, Cernuschio,

Bertolo Belotti

sabato 10 marzo 2018

La fotografia di mio padre



C'era vento.
Il lago aveva la superficie increspata, come una carta stagnola stropicciata poi di nuovo lisciata a mano.
Mio padre, di profilo, guardava l'obiettivo con l'orgoglio di chi sa di essere fotogenico.
Non ha data, quella foto, ma lui avrà avuto venticinque anni.
Pieni anni cinquanta.
Mi guarda dalla foto come se sapesse che quello è il solo vero sguardo che ci rimane di lui.
Un'immagine mediata da una pellicola fotografica vecchia più di sessant'anni, eppure viva, vitale.
Non sapeva come sarebbe stata la sua vita.
Non avventurosa, ma modesta, semplice di lavoro e speranza.
Com'è giusto che sia

mercoledì 7 marzo 2018

Linguaggi, alieni, contesto

Alieno: che appartiene ad altri, estraneo
Nella connotazione di alieno, tanto ha fatto la fantascienza, presentando esseri di mondi lontani, con comportamenti, linguaggi, culture differenti dalle nostre. Ma trattandosi di prodotti umani, gli alieni cinematografici non sono altro che specchi delle nostre culture.


C'è un alto livello di inquinamento rumoroso nei nostri ambienti urbani, che sovrasta  i suoni dei vicini di casa non umani che sono ospitati nei giardini, nei parchi, sui terrazzi.
E se anche  i canti degli uccelli raggiungono i nostri orecchi, sono suoni a noi ignoti, alieni.
Pure sono linguaggi a tutti gli effetti, complessi, tanto che a ciascun verso viene  assegnato un differente verbo.
Il fringuello chioccola, mentre il pappagallo ciangotta. Il passero cinguetta, la tortora tuba ( sempre in coppia, da qui il parallelo con gli amanti), l'usignolo gorgheggia. La cornacchia ci disturba con il suo gracchiare, e si sovrappone al pigolare dello scricciolo o al garrire delle rondini e dei balestrucci. L'anatra starnazza e il falco stride, così come l'aquila, che però si guarda bene dallo scendere sino alla periferia urbana.
La complessità dei messaggi sonori, pur se prodotti da animali dall'intelligenza limitata, è tale che anticamente veniva definita come "Lingua degli Uccelli" un linguaggio mistico, perfetto, a volte di origine divina, solitamente precluso agli uomini o riservato solo a pochi iniziati.


Ho tra le mani un bellissimo erbario , datato 1522. Naturalmente non l'originale, ma una copia anastatica. Vi sono elencate numerose piante, le loro proprietà e caratteristiche. Eleganti immagini, ottima impostazione ,quasi scientifica.



Non capisco quasi nulla di quello che vi è scritto.

E' inequivocabilmente italiano ma ,complice la mia ignoranza anche botanica, oltre che letteraria, una frase che reciti
"Lo genebro sie caldo & secco nel terzo grado: & quando si troua nelle recette si de intender lo frutto"
mi risulta ardo da comprendere.

Il primo scoglio è il tipo di carattere: sono font non più usati, con la s che somiglia alla f , la v assente, sostituita dalla u . Le frasi sono consecutive, senza spazi o a capo.
Ma soprattutto  ho una grave lacuna semantica che mi impedisce di capire cosa significhi "caldo & secco nel terzo grado".

Insomma, se non si riesce a entrare nel contesto storico-culturale in cui questo testo è stato scritto, esso risulta quasi per niente comprensibile.
Un breve transito in rete mi viene in aiuto, e scopro che quei termini arrivano dagli studi di Ippocrate e Galeno sulle qualità degli oggetti naturali, che sono caldo, freddo, secco, umido.

Se avessi voglia di approfondire, potrei studiarmi il pensiero medico antico e quindi sarei in grado di comprendere il testo dell'Erbario.

Dovrei dunque entrare nel contesto.



È il contesto che crea l'informazione.
Prendiamo ad esempio la sequenza di lettere f-i-n-e :

FINE

In italiano esistono almeno ( per non farla troppo lunga) tre significati per questa parola
1) sottile, minuto
2) obiettivo
3) conclusione
se poi lo si legge in un contesto inglese, assume altri significati ancora, quali "bene", "bello".

Il contesto fa la differenza
Non si tratta solo di un tema inerente alla Teoria dell'informazione, nel cui ambito  il contesto  è uno dei fattori che determina la ridondanza ( W. Weaver, Some recent contributions to the Mathematical Theory of Communication,1949, cap. 2). 

Entrare in un contesto significa assorbire l'ambiente, percepire tutte quei piccoli segnali che lo costituiscono.  Senza preconcetti.

Entrare a contatto con una cultura che ci è aliena (fosse anche semplicemente  lontana), assorbirne le abitudini, le regole, ci porta a comprenderne il pensiero, espresso attraverso il linguaggio.   Persino gli etologi, studiando il comportamento delle specie animali, ovvero entrando nel loro contesto, riescono a ricavare i significati portati dal rozzo vocabolario di suoni.
E quello che un tempo era alieno, inizia a diventare familiare.


lunedì 5 marzo 2018

Dieci cose che ho imparato nell'essere padre

(approssimandosi la festa del papà, mi hanno chiesto una riflessione da pubblicare sul periodico Voce Amica, che qui riporto) 

In questa società liquida dove  i cambiamenti sono repentini, così come i diversi atteggiamenti dei nostri figli, ci viene chiesto di essere padri.
La base granitica su cui si basava la famiglia di cinquant’anni fa si è sgretolata e con gli anni e anche attraverso errori mi sono reso conto che le modalità ereditate dalla nostra educazione familiare a volte sono inutili o controproducenti.
Da queste e altre considerazioni nasce l’elenco, stilato qui sotto,  delle cose che ho imparato nell’essere padre.
  1. Ho imparato ad accogliere. I figli  entrano nella tua vita senza chiedere permesso, riempiono la casa, scombinano abitudini e orari, e quando sono molto piccoli  rilasciano spiacevoli prodotti del loro metabolismo.
  2. Ho imparato la pazienza. Per una qualche legge sulla relatività universale, il tempo di un bambino scorre diversamente dal nostro, e quello di un adolescente pure.
  3. Ho imparato a sciare a quarant’anni con mio figlio Nicolò, a conoscere i balletti di danza classica con Maria Sofia, a rivolgere attenzione allo sport ( basket, judo, persino calcio),  e apprezzare la musica classica e i musicals grazie al talento di Filippo.
  4. Ho imparato a non restare confinato ai gusti musicali e di costume degli anni ottanta, perchè l’arte è evoluzione.
  5. Ho imparato a essere esempio senza pretendere di insegnare.
  6. Ho imparato a essere sostegno senza sostituirsi.
  7. Ho imparato a essere guida senza essere competitivo.
  8. Ho imparato a educare senza imporre propri modelli.
  9. Ho imparato che solo creando legami di coppia, solo con una armonia che non è assenza di conflitti, ma comprensione e volontà di superare le differenze, si può continuare  a crescere come genitori ( un grazie a Gabriella).
  10. Ho imparato a perdere i figli, perchè quando si affacciano alla condizione adulta, tu non sei più davanti a fare la strada, ma dietro, a guardargli le spalle.
“I vostri figli non sono figli vostri... sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita.
Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.
Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.
[...]
Voi siete l'arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti.
L'Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell'infinito e vi tiene tesi con tutto il suoi vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane.
Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell'Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l'arco che rimane saldo.”

Gibran Khalil Gibran


giovedì 15 febbraio 2018

Appunti su yoga e comunicazione


Da circa un anno, insieme a Gabriella, ci stiamo dedicando alla pratica dello yoga. Tralasciando tutti gli evidenti benefici psicofisici e mettendo da parte per un attimo il fatto che sia una espressione di religioni e culture orientali ,  quello che ce lo fa apprezzare è il fatto che sia una disciplina che  intende occuparsi di tutti gli aspetti della vita, che vede lo spirito, inteso sia in senso metafisico che come comprensione di sè, in piena connessione con il corpo.

Ho scoperto che il quinto chakra  dello yoga, vishuddha , posto accanto alla laringe, che ci permette di parlare, è quello della comunicazione. La parola come veicolo primario della comunicazione.

Siamo uomini non solo per la nostra composizione genetica, ma anche e soprattutto perchè interagiamo con gli altri, lo facciamo sin dalla nascita. Chi rifiuta di comunicare perde parte della sua umanità. Ma per comunicare in modo appropriato è necessario sviluppare modalità comuni a tutti i membri della comunità di appartenenza. Da qui i linguaggi, suoni (e poi simboli, diventati successivamente lettere) che racchiudono un significato comune.
Per vivere, e con-vivere, sono anche indispensabili modalità di comportamento , spesso codificate in riti.

Occorre ritornare al significato  di rito.  Non abitudine, come spesso viene percepito.
Se pur nati con l'idea di portare un messaggio, sottolineare l'importanza di un evento o di un gesto, piegare l'attenzione verso una buona pratica ( il rito della buonanotte per i bambini, che riallaccia il legame familiare, o il segno di croce per i cristiani, insieme simbolo identificativo e memoria  , i riti si sono sclerotizzati, svuotati di significati in parte a causa dell'incapacità delle istituzioni civili e religiose di sostenerli.
In verità essi sono una modalità per guidare il pensiero e l'azione verso uno scopo buono per sè e per gli altri.


I riti dello yoga ( il saluto, la respirazione, le posizioni ), guidano la mente. Tutto concorre a una visione dell'essere spirituale intrecciata al corpo materiale.  L'energia visualizzata nelle pratiche yoga non è vera "energia", ma proiezione della nostra mente per acquisire consapevolezza. Eppure veramente influisce sul corpo, donandone equilibrio, calma, elasticità fisica e mentale.

Con questa predisposizione, l'aspetto emotivo della  comunicazione acquista una valenza positiva che ne rinforza anche la parte di contenuto, rendendolo più efficace.

Sarebbe davvero auspicabile che questa positività emozionale, questa elasticità di pensiero  si diffondessero nella società allo stesso modo. Per restituire ai riti i significati dimenticati, alle azioni il giusto peso, alle comunicazioni il giusto equilibrio, alle opinioni gli strumenti adatti affinchè non siano lampi di un pensiero scoordinato, ma attente meditazioni con gli occhi bene aperti sul mondo.

martedì 16 gennaio 2018

Elogio della Valle


Amiamo le montagne. Ma alle cime preferiamo le valli.
Salire una vetta è una sfida, un confronto con le difficoltà della natura e una misurazione dei propri limiti fisici.
Salire è una ricerca, un’ascesi spirituale, una porta a una dimensione aliena rispetto al quotidiano, che si apre all’universo, che si esprime nelle guglie di roccia e ghiaccio,  estreme propaggini della Terra proiettate verso lo spazio esterno.

“Le rocce delle montagne di fronte luccicano di luce violenta.
Si direbbero fatte d’acciaio, come lame di spade conficcate nella terra.
Un punto nel cielo, forse un’aquila.
Il cielo è proprio azzurro, quassù.
Niente a vedere con il pallido della pianura.”
(autocitazione : Alta Via, racconti verso l’Alto )






Ma alla base dei giganti di pietra si dipana una ragnatela di solchi scavati, che tagliano la terra nei modi più disparati, che mostrano anfratti, spiazzi, ampi declivi, ripidi versanti boscosi, praterie ondulate.

“Le valli sono rughe sulla faccia della Terra,
scavate da ghiacciai e torrenti, grandi e inarrestabili scultori.
Come solchi umani […] rivelano i caratteri della gente,
emozioni e scontri infiniti, che si perdono negli anni.”
(cit. Carlo Grande, Terre Alte, Ponte alle Grazie, 2008)

Se gli incontri tra chi si avventura sulle vette sono brevi,  intensi, improntati alla solidarietà di chi come noi affronta il rischio di mettere in gioco tutto di sé, persino la propria sicurezza, nelle valli si incontra il lavoro, il vivere quotidiano, la sfida a lungo termine del sopravvivere, e se possibile prosperare, in un ambiente per alcuni aspetti ricco, per altri avaro e aspro.

La valle protegge, nasconde. Racchiude, accoglie, si allarga ad abbracciare il cielo, si corona di luce all'alba e al tramonto.

🌙

Risaliamo la valle. Dopo un'ora scarsa di auto giungiamo oltre la Goggia, dove la valle diventa Alta.
Il paesaggio, nonostante siano il terra d'ombra e il castano i colori dominanti, offre a sprazzi lampi di oro, quando qualche raggio di sole colpisce boschetti di larici o filari di siepi. 
Oltrepassiamo l'ultima lunga galleria, che buca uno sperone che ostruisce parzialmente la valle, e usciamo dalla parte opposta, nella piana dove il Brembo di Carona mescola le sue acque con il Brembo di Mezzoldo. Pare di essere usciti dall'armadio di Narnia, di aver attraversato il ponte per Terabythia. Un paesaggio inusuale, almeno per noi.
Tutto è imbiancato da una coltre di neve, sulle foreste di abeti pare sia stato steso un tessuto piè de poul.  Fili bianchi e e neri a tessere arabeschi sulle gobbe antiche che si fondono per formare il letto del torrente fumante.
La neve scende ancora e scenderà tutta la notte.
Il mattino dopo il sole ritardatario sfolgora sulle superfici vetrose della neve ghiacciata, sulle stalattiti a mille sui bordi rocciosi delle strade, sulla polvere d'argento che mossa dal vento, si libera dai rami degli alberi.
Nei giorni che seguono facciamo esperienza di fondo, di wellness e di cene accanto al camino nel più bel agriturismo della valle, altre volte abbiamo ciaspolato, esplorato angoli semisconosciuti, passeggiato in borghi dove il selciato rimanda l'eco delle migliaia di calzari che lo hanno percorso dal Medioevo a oggi, assaporato i sapori della valle, ricevuto accoglienza in rifugi minuscoli, goduto di una cordialità rustica ma sincera.
Ci siamo immersi, oltre che nelle salutari acque delle Terme di San Pellegrino, anche nella atmosfera da Belle Epoque, che ha trasformato questo comune per un breve periodo in un "buon retiro" della società bene italiana.

 Non siamo molto lontani dal mondo del business e delle industrie, ma per noi salire in valle è come raggiungere l'Ultima Casa Accogliente

« La sua casa era perfetta, che vi piacesse il cibo, o il sonno, o il lavoro, o i racconti, o il canto, o che preferiste soltanto star seduti a pensare, o anche se amaste una piacevole combinazione di tutte queste cose. In quella valle il male non era mai penetrato »  ( J.R.R.Tolkien, Lo Hobbit)






Appunti
Commento sul mio taccuino ( cartaceo e in web) gli argomenti che di volta in volta mi sembrano più interessanti, con un obiettivo semplice: cercare di migliorare e rendere più chiara la mia visione del mondo. E se questo può aiutare anche voi, ne sono felice.